L’accostamento tra gli eventi di Brasilia e quelli di Capitol Hill viene facile, quasi immediato. E l’affresco cronachistico dell’assalto dell’8 gennaio scorso alle istituzioni brasiliane non pare essere, almeno in grandi linee, differente dal tentativo d’invasione barbarica del Congresso americano avvenuta circa due anni fa. Negli ultimi giorni il fluire ininterrotto del dibattito pubblico si affanna nel formulare profezie distopiche circa una possibile diffusione indiscriminata del «bacillo dell’insurrezione estremista» ai danni delle istituzioni democratiche. Ma cosa caratterizza questi fenomeni? E, soprattutto, possiamo veramente ritenere che siano potenzialmente replicabili altrove?
I punti di contatto tra i due movimenti devastatori sono molteplici. In primo luogo, sia i bolsonaristi che i trumpisti sono lungi dall’assomigliare ai gruppi insurrezionali che hanno segnato l’inizio e lo svolgimento della storia contemporanea. Non hanno la profondità culturale dell’illuminismo europeo come i rivoluzionari francesi del 1789, e non hanno neanche la razionalizzazione indipendentista e popolar-democratica che avevano gli insurrezionalisti del 1848. Sono masse di semicolti, aizzate dalla disinformazione complottista, che approcciano alla rivolta in maniera disorganica, a causa di una totale assenza di presupposti ideologici, di consapevolezza politica e di una razionalizzazione storico-sociale.
In secondo luogo, sono entrambi connotati da un superomismo strisciante, in cui un leaderismo quasi messianico esprime la figura del capo politico come unico salvatore e primo martire di una società mentitrice e sordida. Nelle loro narrazioni, così come nelle azioni dimostrative, sono soliti appropriarsi, in modo arbitrario e astorico, di simboli nazionali dalla portata ecumenica, come la bandiera, e trasformarli in emblemi di fazione (sia a Capitol Hill che a Brasilia i manifestanti sventolavano le loro rispettive bandiere nazionali). Questo aspetto, che ai più potrà sembrare il frutto di un impulso allo stesso tempo selvaggio e romantico, ha come corollario l’appropriazione semiotica coatta di un simbolo che ha già una sua pregnanza e un suo valore comunicativo. Una sorta di assorbimento improprio di valori storicamente condivisi che non hanno nulla a che fare con le attività svolte da questi movimenti.
In terzo luogo, la disinformazione, quale metodo di costruzione della verità politica di parte, si sovrappone alle strategie di proselitismo, creando un unico, micidiale amalgama. Entità digitali, astratte e non chiaramente qualificabili, creano finzioni sceniche e strumentali attraverso cui è possibile tessere una trama che divida lo scenario politico in modo manicheo: i traditori degli ideali patriottici da un lato e i difensori di una libertà negata dall’altro. La meticolosità delle impalcature della disinformazione trumpista e bolsonarista permeano così profondamente nelle coscienze dei loro sostenitori da generare una chiusura ermetica ad ogni altro tipo d’informazione. I loro seguaci paiono essere vocati, con una fede al limite del fondamentalismo, ad una religione laica e antropologica.
In altri tempi si sarebbero di certo organizzati diversamente, forse con telegrammi e lettere consegnate a mano, ma oggi possono disporre di tecnologie digitali che favoriscono una maggiore velocità di trasmissione dei messaggi e una più rapida organizzazione dei trasporti. Per queste ragioni, ogni forma di azione collettiva, assalti a Capitol Hill e Brasilia compresi, viene preparata sui social network e tramite app di messaggistica istantanea. Il risultato è che il passa parola si diffonde al ritmo di una viralità inarrestabile, generando un coinvolgimento massivo.
Il quarto elemento di vicinanza è dato dal fatto che entrambi i movimenti sembrano avere un vero e proprio culto del simbolismo, data l’ossessione per le sedi fisiche dei poteri dello Stato (il Campidoglio per gli Usa e il Parlamento e la sede della Suprema Corte per il Brasile). Un culto, questa volta irrazionale e romantico, che si trasforma in furia iconoclasta nel momento in cui si compiono gli assalti. Quasi come se in quei momenti di cieca violenza si intendesse minare alla stabilità delle istituzioni attraverso una distruzione delle loro sedi materiali. Pare evidente, come hanno evidenziato molti analisti fino ad oggi, che entrambi gli attacchi non avessero finalità rivoluzionarie, ma meri intenti di destabilizzazione politica.
Il quinto e ultimo punto in comune si rinviene nelle tempistiche di azione. Entrambi gli assalti sono avvenuti in prossimità di una sconfitta elettorale e mai prima delle elezioni o durante il loro svolgimento. Questo ultimo punto è legato a filo diretto alle strategie di disinformazione che mirano alla delegittimazione dell’avversario. Costui, quando diviene vincitore, si trasforma in un «truffatore» o in un «boicottatore» del corretto processo elettorale. Allora la «scarica» canettiana che permette la nascita di una massa violenta che si lancia all’attacco dei palazzi del potere è generata dal bisogno di contrastare un risultato elettorale percepito come ingiusto e ladresco.
Altri elementi, allo stesso tempo, potrebbero suggerire differenze marcate: a partire dal comportamento dei due leader al momento della sconfitta elettorale, fino a giungere al diverso coinvolgimento delle forze dell’ordine e di uomini delle istituzioni.
Questi aspetti ci consegnano il ritratto di moti insurrezionalisti disorganici, la cui portata diffusiva è limitata al presentarsi di alcuni fattori destabilizzanti (forte polarizzazione dell’opinione pubblica, profonde diseguaglianze economiche, elevata pervasività della disinformazione, leaderismo nazionalista). Inoltre, il loro argine è dato dalla stessa essenza nazionalista che li connota: l’interesse nazionale, al netto dei trattati stipulabili, difficilmente coincide con l’interesse nazionale di un altro soggetto internazionale (come, d’altronde, sottolineava sagacemente Sabino Cassese), sicché risulta essere complicato sviluppare alleanze durature che abbiano il fine di perseguire interessi comuni.
Resta poi ferma, come un vero imperativo storico, l’impossibilità di ragionare per analogie nell’analisi di fenomeni storico-sociali. Il ruolo che il sostrato culturale di ogni popolo, le condizioni economiche e sistemi giuridici hanno è fondamentale, dimodoché non potranno mai esserci «fotocopie storiche» ma solo fenomeni simili che hanno una maggiore o minore relazione tra loro.
1 comment
Sì, concordo su un po’ tutto. Ho ragionato dando la colpa in gran parte a internet, perché ha consentito il diffondersi e l’ingigantirsi di una stupidità sempre esistita, ma che ora di rende conto della “massa critica” e decide che “non può non aver ragione” – anche se pensa cazzate epocali.