C’è una brutta idea che ultimamente ha trovato nuova linfa nel dibattito politico. Vista la paralisi della giustizia italiana e il numero altissimo di prescrizioni, rifare tre volte lo stesso processo – in primo grado in Tribunale, in secondo grado in Appello, in terzo grado in Cassazione – per arrivare a una sentenza definitiva sarebbe un lusso che non possiamo permetterci. Ergo, cancelliamo con un tratto di penna il giudizio d’Appello, così da velocizzare notevolmente i tempi ed evitare le odiose prescrizioni dietro le quali troppo spesso si riparano i lestofanti. Al coro dei vari Travaglio (che ha definito il secondo grado “uno scontificio” da eliminare – salvo naturalmente farvi sempre ricorso nei suoi processi) Ingroia e altri Torquemada nostrani si è unita ultimamente la percezione comune, scossa da episodi come il recente “caso Cucchi”. Condanna in primo grado a furor di popolo – ricorso in Appello – assoluzione che scontenta tutti. Che si tratti dunque di un esposto per allungare i tempi o di un’assoluzione che annulla una condanna, l’Appello è percepito come una garanzia eccessiva, di ostacolo alla giustizia e del quale bisognerebbe quindi sbarazzarsi. Ma è proprio così?
L’argomento per cui il secondo grado sia dannoso solo quando si ricorra contro una condanna sembrerebbe banale forcaiolismo da bar. Eppure è curioso notare come la stessa parte di magistratura e di stampa fiancheggiatrice che propone di eliminare il secondo grado fece proteste strazianti contro la “Legge Pecorella” del 2006, che affermava l’inappellabilità (sola possibilità di revisione in Cassazione) per le sentenze di assoluzione, come nei paesi di common law. In quel caso, guarda un po’, il secondo grado diveniva una garanzia imprescindibile. Effettivamente, dando un’occhiata ai numeri, è proprio così: quasi il 50% delle sentenze di primo grado viene riformata in secondo grado. La tendenza a voler eliminare l’Appello altrui ma non il proprio è solo il sintomo di ciò che emerge chiaramente dalle statistiche: il secondo grado è una garanzia che cambia notevolmente gli equilibri. Rinunciarvi aumenterebbe pericolosamente le probabilità di errori, la sola possibilità di ricorrere in Cassazione non dà sufficienti garanzie.
Più complessi i problemi relativi a tempi e prescrizione. Ci promettiamo di trattare approfonditamente il problema più avanti ma per adesso limitiamoci a chiarire alcuni dati. A seguito dell’introduzione della criticata -e criticabile- “Ex Cirielli” il numero di prescrizioni, che nel 2005 ammontava ad oltre 200.000, si è sostanzialmente dimezzato. Ma non è neanche questo il dato più importante. Il punto è che non è affatto vero che sia il dibattimento il luogo ove matura il maggior numero delle prescrizioni, perché come dimostrano i dati resi noti di recente dal Ministero della Giustizia, la maggior parte delle prescrizioni matura già nella fase delle indagini preliminari. Per parlare dati alla mano, risulta che nel 2012 le prescrizioni sono state complessivamente 113.057, ma di queste ben oltre 70.000 sono intervenute nel corso delle indagini preliminari: 67.252 sono state oggetto di decreto di archiviazione, 4.725 sono state dichiarate con sentenza da parte dell’ufficio Gip/Gup. Preso atto poi che solo le rimanenti 43.000 (sulle 113.057 prescrizioni complessive) sono state dichiarate nel corso delle successive fasi del processo, possiamo domandarci se tale dato in sé sia ancora così patologico: ma in ogni caso è evidente che eliminare l’Appello sarebbe come chiudere la stalla quando gran parte dei buoi sono già scappati. Le perdite di garanzia superano di gran lunga i benefici.
Soppesata la rilevanza dell’appello e smontati – o comunque indeboliti – alcuni luoghi comuni sul nesso prescrizioni-garanzie, resta ovviamente da chiedersi se sia possibile accelerare i tempi dei processi senza eliminare i tre gradi di giudizio. Riportiamo in questo senso un’interessante proposta elaborata da Luigi Lanza, ora giudice di Cassazione.
Se si considera che gli imputati condannati a pena detentiva superiore a 3 anni di reclusione sono un numero limitato rispetto a quelli condannati a una pena inferiore, basterebbe stabilire che solo per chi ha subìto una condanna superiore a 3 anni i giudici di appello siano tre, mentre, per tutti gli altri processi il collegio giudicante debba essere composto solo da due magistrati. In questi casi, a parità di voti, si applicherà, anche per la determinazione della pena, la regola del favor rei (prevale la soluzione più favorevole all’imputato) stabilita dal terzo comma dell’art. 527 del Codice di procedura penale. Regola applicata quotidianamente dai giudici di Corte d’Assise, che sono competenti per i reati più gravi -strage, omicidio volontario ecc.- e ad oggi unico caso in cui il numero dei giudici è pari (in Tribuanale sono uno o tre, in Corte d’Appello tre, in Cassazione cinque). Il tendenziale recupero di un magistrato ogni tre, mantenendo gli attuali livelli di produttività media per singolo consigliere, potrebbe rappresentare una prima soluzione efficace per i tempi della nostra giustizia. Come visto, senza nessun bisogno di eliminare fondamentali garanzie, anzi.