La visita di due giorni in Italia del Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran Hassan Rouhani è carica di importanza. Sarà la prima tappa di un tour europeo che un Capo di Stato Iraniano non compiva da diciassette anni, e segnala la fine delle sanzioni che a lungo hanno paralizzato l’economica iraniana, un processo innescato dalla firma dell’accordo sul nucleare lo scorso luglio. Vi sono quindi, importanti elementi simbolici, economici e geopolitici a fare da sfondo a questa visita. Vorrei fare un riflessione su quello che potrebbe essere il rapporto tra Occidente, e Italia in particolare, e l’Iran a partire da questo timido disgelo.
Bisogna chiarire prima due punti: il primo, che l’accordo sul nucleare, per quanto migliorabile, è un buon accordo. Sancisce la possibilità dell’Iran di avere un programma civile di energia nucleare, sottoponendosi ad ispezioni e di non essere trattato come un paria dalla comunità internazionale, rientrando nei parametri sanciti dal Trattato di Non-Proliferazione Nucleare di cui è firmatario. Il secondo punto riguarda il fatto che l’Iran abbia avuto, a partire dalla Rivoluzione Khomeinista, una politica che smentisce le parole apparentemente pacifiche dei suoi leader. Questa politica non ha solo riguardato un intenso odio verso gli Stati Uniti, ma anche la sponsorizzazione della guerra civile in Yemen, un conflitto che lo vede contrapposto all’Arabia Saudita, il supporto al regime di Assad in Siria e alle milizie sciite in Iraq, e l’addestramento e i fondi concessi a Hezbollah nel corso degli anni. A questo si aggiungono costanti minacce circa la libera circolazione nello stretto di Hormuz, da dove transita una considerevole percentuale di tutto il petrolio estratto in Medio Oriente, minacce sulla distruzione dello Stato di Israele – definito “Entità Sionista” – accompagnate da vergognose litanie negazioniste, e il mantenimento di un regime teocratico così repressivo da far sembrare la Russia di Putin un paradiso liberaldemocratico. L’Iran in breve, non è né un paese che cerca la convivenza pacifica con i propri vicini né una vittima inerme accerchiata da nemici. È un paese che richiede un approccio deciso e ispirato a una politica realista, con obiettivi di breve durata circa il suo ruolo nella stabilità regionale, e di lunga durata sulla sua eventuale democratizzazione.
Avendo mosso queste premesse, è da prendere atto che, geopoliticamente parlando, un maggior coinvolgimento dell’Iran negli affari del Medio Oriente in particolare, e del mondo in generale stia diventando sempre più una necessità pressante. L’Iran è diventato un argine a DAESH, mettendo in campo la sua Unità Al-Quds e il suo eclettico e spietato comandante, il Generale Qasem Soeimani, sia nelle operazioni in Siria che in quelle in Iraq. Se in Siria queste unità rinforzano la precaria posizione di Assad, in Iraq operano a fianco del governo di Baghdad, combattendo di fatto con il supporto aereo americano, una situazione paradossale e scomoda per entrambi i paesi, ma necessaria. Infatti, tenendo conto della riluttanza americana all’invio di forze di terra in Iraq, l’Iran è il candidato ideale a fornire supporto terrestre all’esercito iraqeno, supporto disperatamente necessario a una forza armata incapace di contenere di suo i miliziani dell’autoproclamato califfato. Contatti, sia pure informali, tra americani e iraniani porterebbero a una possibile accelerazione della campagna militare, anche se è chiaro che questo accetterebbe una maggiore influenza dell’Iran nell’Iraq post-bellico. D’altronde, è dalla caduta di Saddam che le fazioni sciite che si sono succedute al potere a Baghdad sono state sponsorizzate dagli Ayatollah, e quindi non sarebbe che una constatazione di una situazione sviluppatasi da tempo. Allo stesso modo, in Siria l’Iran è ancora più della Russia un partner indispensabile per determinare il futuro del paese. Posto che gli alleati occidentali non vogliano vedere la Siria cadere in mano ai jihadisti, rimarrà da chiarire il destino sia politico che personale di Bashar Assad: qualunque transizione o continuità nell’esercizio del potere a Damasco dovrà essere mediata con il Presidente, e gli iraniani possono esercitare su di lui una influenza seconda a nessuno, di nuovo rivelandosi dei preziosi, anche se scomodi alleati dell’occidente.
Queste considerazioni renderebbero omaggio alla realtà iraniana di essere una delle tre potenze regionali che si contendono lo scacchiere medio-orientale, e un abile esercizio diplomatico dell’Occidente potrebbe bilanciare i suoi interessi con quelli delle altre due potenze, Arabia Saudita e Turchia, portando stabilità nella regione. Una simile situazione sarebbe l’occasione perfetta per la diplomazia italiana di mettersi in mostra, o in proprio contando sugli storici buoni rapporti con Tehran, o attraverso l’UE, attore terzo e neutrale, con Federica Mogherini, che si potrebbe dimostrare degna del gran lavoro politico che ha circondato la sua nomina.
Se sul campo della diplomazia l’Italia può, in un modo o nell’altro giocare un ruolo chiave con l’Iran, altrettanto può fare in campo economico, approfittando di ogni occasione per incrementare la penetrazione commerciale nel paese. Questo avrebbe non solo effetti benefici per l’economia di entrambi i paesi, ma offrirebbe una grande occasione per la modernizzazione dell’Iran. In molti ritengono ancora che i regimi dittatoriali, gli “stati canaglia” vadano isolati e loro leader puniti attraverso sanzioni commerciali. Nulla di più sbagliato. Il commercio, l’esposizione al mondo esterno sono il motore per qualunque tipo di cambiamento, sia esso politico, o sociale. Le sanzioni invece permettono la creazione di una società chiusa dove la popolazione soffre e i leader possono accusare facilmente il mondo esterno di tutte le loro problematiche. La Corea del Nord, il paese più chiuso al mondo, è l’esempio di ciò: nonostante decenni di sanzioni, la dinastia dei Kim è saldamente al potere e dispone di armi nucleari. Una ripresa degli scambi commerciali, specialmente in un periodo in cui il prezzo del petrolio si trova ai minimi termini, potrebbe innescare nel tempo quel cambiamento tanto auspicato in Occidente.
Detta in parole più dirette, è difficile immaginare che il regime degli Ayatollah crolli per via di un isolamento diplomatico e commerciale, e ancora più difficile sarebbe immaginare un regime change simile a quelli operati in Iraq e Libia: i disastrosi risultati sono visibili a tutti. Dovendo quindi convivere con l’attuale regime, è opportuno trarne tutti i vantaggi possibili, facendo ricorso a strumenti indiretti, come appunto l’apertura commerciale, per operare quel cambiamento che porterà all’apertura della società iraniana.
L’Iran quindi va trattato allo stesso modo in cui viene da tempo trattata la Repubblica Popolare Cinese, come un paese con cui è possibile commerciare, trovare accordi su specifiche questioni di rilevanza regionale o globale, ricordando allo stesso tempo che la nostra cultura occidentale, i nostri valori e la nostra tradizione democratica e liberale ci fanno storcere il naso davanti a certe pratiche. Se in Cina queste sono la repressione delle minoranze, il dominio del partito unico e la censura del pensiero, in Iran sono la società teocratica e claustrofobica, il disprezzo per Israele e l’assenza di diritti civili per dirne alcune. Questa differenza va rimarcata e ricordata, con ferma garbatezza ad ogni occasione utile, e questa è una sfida che vedrà la reale caratura della diplomazia Europea, se vorrà mettersi in gioco.
La diplomazia italiana invece è partita con un passo falso. A parte l’encomiabile sforzo di far ripartire gli scambi commerciali, siamo stati tutti testimoni della copertura dei nudi al Campidoglio, dove si è svolto l’incontro tra Rouhani e Renzi. È già partito il prevedibile scaricabarile di responsabilità, tra Palazzo Chigi, Ministero dei Beni Culturali e Musei capitolini, ma rimane la spiegazione “ufficiale” diramata martedì: i nudi sono stati coperti per “non urtare la sensibilità culturale” della delegazione ospitata. A prescindere da chi sia stato l’ideatore, il messaggio è stato quello di subordinazione culturale, se non di goffo provincialismo. Certo, è vero che l’Italia si dimentica spesso di essere un paese laico, ma aprire in questo modo una nuova fase diplomatica, accettando come “sensibilità culturale” l’oscurantismo teocratico degli Ayatollah, promette poco bene. Speriamo sia stato solo uno scivolone occasionale, solo un’altra gaffe che fa sorridere il mondo, e che non dovremo trovarci tra qualche anno a rimpiangere un’altra occasione persa dall’Italia di essere determinante diplomaticamente senza essere servile verso gli interlocutori.