L’approvazione del decreto attuativo della c.d. delega fiscale – avvenuta all’esito del Consiglio dei Ministri dello scorso 24 dicembre – mette mano alla disciplina dei c.d. reati tributari, con un duplice intento:
1) garantire certezza e razionalità nell’applicazione della legge da parte della magistratura tributaria;
2) alleggerire la posizione delle numerose imprese che, a causa della gravità e della apparente irreversibilità della crisi economica in atto, faticano a far fronte ai propri obblighi nei confronti del fisco, dall’altro.
Le suddette finalità sono state perseguite, da un lato, attraverso la rimodulazione della figura del c.d. abuso del diritto – che è stata ridimensionata, includendola nella nuova fattispecie, meno vaga e più tipizzata, di elusione – e, dall’altro, mediante l’innalzamento della soglia di rilevanza penale di alcune condotte legate all’evasione fiscale (omesso versamento di ritenute certificate, omesso versamento di IVA, dichiarazione infedele).
Ad un atteggiamento così – giustamente, aggiungo io – benevolo nei confronti del tartassato ceto imprenditoriale, tuttavia, fa da contraltare una prassi giudiziaria la cui severità si pone in netta opposizione alla ratio che ha recentemente ispirato il legislatore.
Lo scorso 15 dicembre, infatti, la Terza Sezione della Corte di Cassazione Penale, con sentenza n. 52038/2014, ha stabilito che non sussiste lo stato di necessità, idoneo a giustificare l’omesso versamento di ritenute certificate, nel caso di un imprenditore in dissesto che non sia in stato in grado di assolvere alle sue obbligazioni tributarie a causa dell’assoluta incolpevole illiquidità dell’azienda, dovuta alla congiuntura economica negativa. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto che né l’aver privilegiato il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti, né l’aver dovuto pagare i debiti ai propri fornitori strategici e neppure, infine, la mancata riscossione di crediti vantati e documentati verso la pubblica amministrazione e lo stesso fisco, potessero discolpare in alcun modo l’imprenditore.
Posto che fattispecie come quelle appena esaminate sono astrattamente perseguibili anche attraverso l’irrogazione di una sanzione amministrativa – che prevede il versamento dell’intero quantum dovuto, maggiorato di una sovrattassa – appare quantomeno eccessivo, in questi casi, il ricorso alla sanzione penale, che dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, riservata a condotte il cui disvalore è così elevato da richiedere il più drastico intervento previsto dall’ordinamento giuridico.
Se, tuttavia, vuole riconoscersi in tale rigorosa impostazione la necessità di combattere strenuamente ogni fenomeno di evasione fiscale, bisogna ammettere che, talvolta, la severità dei Giudici tributari trascende i confini della ragionevolezza e giunge a risultati, se non altro, singolari.
Mi riferisco al monolitico e consolidato orientamento della Cassazione Penale, ribadito da ultimo con sentenza n. 40525/2014 depositata il 1 ottobre scorso: la Corte, in tale occasione, ha ribadito che l’imprenditore che abbia commesso un illecito tributario sanzionato sia dall’ordinamento amministrativo che da quello penale, potrà essere giudicato e condannato due volte per lo stesso fatto.
Nel caso sopra esaminato, per esempio, sarebbe del tutto legittimo instaurare un processo amministrativo nei confronti dell’imprenditore, avente ad oggetto lo stesso omesso versamento di ritenuta certificata, all’esito del quale infliggere una nuova sanzione a carico di quest’ultimo.
Questa prassi, ritenuta ragionevole dalla nostra Suprema Corte, si pone in aperta antitesi con uno dei principi fondamentali del nostro, ma anche di tutti gli altri ordinamenti giuridici avanzati del mondo – in alcuni casi, esso è addirittura costituzionalmente tutelato – vale a dire, con il ne bis in idem. Con tale locuzione latina – che significa letteralmente non due volte per la medesima cosa – si intende definire il principio secondo cui un Giudice non può esprimersi due volte sulla stessa faccenda, qualora sopra questa si sia già pronunciata una sentenza passata in giudicato.
In tempi recenti, il 27 novembre 2014, la CEDU – Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – nel caso Lucky Dev c. Svezia, si è espressa condannando lo Stato Svedese per violazione del divieto di ne bis in idem, di cui all’art. 4 prot. n. 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto dal legislatore svedese in materia tributaria.
Che sia il caso di far presente alla Cassazione che il suo atteggiamento nei confronti degli imprenditori, oltre a porsi in controtendenza rispetto a quello manifestato dal nostro legislatore in questo momento storico, è contrario ai principi fondamentali del diritto, interno e comunitario?
2 comments
Ottimo articolo David, idoneo a fr percepire la distanza che passa tra l’intento della Legge e la sua pratica applicazione, ciò che induce a riflettere per l’ennesima volta sul nostro ordinamento giudiziario me, e sopratutto, su quello legislativo, e sulla sua incapacità di condizionare il potere giudiziario nel senso dell’autentica interpretazione dello spirito della legge.
Ti ringrazio molto Franco, hai colto l’intento dell’articolo. D’altronde noi operatori del diritto siamo abituati a scorgere continuamente questa pesante discrasia tra lo spirito della legge e la sua applicazione quotidiana.