Si è conclusa in farsa l’esperienza da sindaco di Roma di Ignazio Marino. Il dramma sulle sue dimissioni, presentate controvoglia il 12 ottobre e poi ritirate il 29, è giunto al termine il 30, con le dimissioni della maggioranza dei consiglieri dell’Assemblea Capitolina, decretando la decadenza sia della consiliatura che della giunta. Il giorno successivo il Prefetto di Roma Gabrielli ha nominato come commissario straordinario della capitale il Prefetto di Milano Francesco Tronca, con l’incarico di traghettare la città alle prossime elezioni, che si terranno presumibilmente in primavera, in concomitanza con le elezioni locali nel resto d’Italia. Il commissario dovrà presiedere al disbrigo degli affari correnti, che saranno dominati a partire dal 8 dicembre dallo straordinario Giubileo della Misericordia, evento che presumibilmente attirerà nutrite schiere di fedeli in pellegrinaggio.
Ridurre tutta l’esperienza da sindaco di Marino a queste ultime, convulse settimane sarebbe riduttivo e semplicistico, anche se mettono in luce i due elementi fondamentali che ne hanno determinato il fallimento: l’atteggiamento del PD e il carattere dell’ex chirurgo. Quando fu eletto nel 2013, Marino aveva tanti buoni propositi per cambiare una città con decennali problemi, legati a una infrastruttura e a dei servizi indegni di una metropoli moderna, a una burocrazia soffocante e clientelare, a una corruzione pervasiva ed a una criminalità locale aggressiva e ben radicata sul territorio. I successivi due anni e mezzo sono stati un susseguirsi di azioni positive – leggere per credere – volte ad affrontare questi problemi, di azioni opinabili, ma sostanzialmente innocue, come la trascrizione di matrimoni tra persone dello stesso sesso nonostante il divieto del ministero dell’Interno, e di azioni fonte di imbarazzo, come lo scandalo sulla Panda rossa e i permessi della ZTL, le lunghe vacanze negli Stati Uniti, la “scomunica” papale riguardo il viaggio a Philadelphia, e altre ancora. La magistratura inoltre, sta attualmente indagando possibili illeciti, legati alla ONLUS di Marino e alla vicenda dei famosi scontrini dei rimborsi. È stata quindi una esperienza politica complessa, dai risultati incerti a causa della sua fine prematura, e su cui è difficile dare un giudizio univoco, almeno fino al termine dell’iter giudiziario che potrebbe seguire le indagini.
Questi sono i fatti e gli atti. Il problema del sindaco “marziano” però ha riguardato più la sua (assenza di) leadership politica e l’atteggiamento del PD, come detto prima, che i fatti concreti. Grave è stato il comportamento del Partito Democratico, il quale, ricordiamo, aveva ottenuto una vittoria importantissima nel 2013, rafforzata dal controllo sull’esecutivo nazionale. Orbene, invece di approfittare di questa favorevole circostanza per iniziare un piano di rilancio della Capitale, il PD si è comportato esattamente come tutti gli altri partiti che si sono susseguiti nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio – con l’eccezione dei Radicali – immergendosi appieno in quello che i romani eloquentemente soprannominano “magna magna”, un insieme di corruzione, negligenza, opportunismo politico e indulgenza che rendono da sempre l’amministrazione cittadina invisa ai cittadini, aliena, se non addirittura ostile. Con lo scandalo di Mafia Capitale si è raggiunto un nuovo abisso per l’Urbe – e questo è tutto dire, visti i precedenti – ma il PD si è limitato a nominare il suo presidente, Matteo Orfini, come commissario straordinario. Da ciò non è scaturita alcuna sinergia positiva con il sindaco. Anzi, dopo un periodo di difesa a spada tratta, Orfini è sempre più stato eclissato dal segretario premier Renzi, il quale, tra una battuta e una frecciatina, ha fatto comprendere la sua insoddisfazione verso Marino e verso l’amministrazione capitolina, per motivi che appaiono al momento squisitamente politici. Dalla fine dell’estate Marino è stato sottoposto a un crescente pressing affinché facesse un passo indietro, pressione che è sfociata nella rocambolesca vicenda delle dimissioni: presentate dal sindaco nonostante gli immutati equilibri politici nell’Assemblea Capitolina, ma tenute in sospeso dalla possibilità di un ripensamento. Quando il ripensamento è sopravvenuto, è stato superato con le dimissioni dei consiglieri facendo scattare il “tutti a casa”. L’intera vicenda poteva essere evitata se il PD si fosse comportato responsabilmente e avesse sfiduciato il sindaco senza ricorrere all’imbroglio delle dimissioni en masse. Emblematico di tutta questa vicenda, dal sapore di intrigo politico di bassa lega, è stato l’incontro tra Renzi e il commissario Tronca subito dopo lì’insediamento di questi, incontro negato ripetutamente a Marino durante tutto il convulso periodo delle dimissioni temporanee, a voler quasi sottolineare l’indifferenza del premier verso il chirurgo che pure del PD è stato un fondatore.
Le colpe del PD, romano e nazionale, sono state una parte del problema, ma rimane chiara anche la pochezza di Marino, presentatosi come un grande rinnovatore per Roma, ma sostanzialmente non equipaggiato per il ruolo, come ha dimostrato la vicenda delle false dimissioni: anziché mettere Renzi davanti alla responsabilità politica della fine della sua amministrazione, rimanendo al proprio posto, Marino ha preferito assumere un comportamento quasi infantile, dimettendosi, poi cambiando idea e infine gridando al complotto. Per gestire una città come Roma è necessaria una certa capacità politica, un quid – per rubare un termine di berlusconiana memoria – per far ripartire l’amministrazione cittadina e per disegnare, promuovere e mantenere un grande piano di infrastrutture e investimenti necessari a una capitale occidentale nel terzo millennio. È necessario un quid per creare un piano per il turismo che copra siti archeologici, musei e aree di verde pubblico. È necessario un quid per combattere la criminalità organizzata, che a Roma passa dal racket, dai venditori ambulanti per le strade, dalla prostituzione, dallo spaccio di droga. È necessario infine un quid politico notevole per poter vendere queste iniziative agli elettori romani, cinicamente sospettosi verso l’autorità. Pensare che una operazione del genere sia impossibile in una città come Roma, che “tanto non cambia nulla” è sbagliato. Negli anni ’80 ad esempio, New York era ridotta in condizioni pessime, il sistema di trasporto pubblico era al collasso, interi quartieri erano in preda al degrado e vantava una delle percentuali più alte di crimini violenti degli Stati Uniti. Sotto i sindaci Dinkins (Democratico), Giuliani (Repubblicano) e Bloomberg (indipendente) la città vide una incredibile rinascita, a partire dal tasso di criminalità che tornò stabilmente sotto la media nazionale, seguito dal recupero di vasti tratti urbani con grandi investimenti pubblici e privati che hanno visto rinascere interi quartieri prima dilapidati. Questo è stato possibile grazie a una sinergia tra sindaci determinati e muniti di una chiara visione, e il supporto politico del governo. A Roma serve una cosa simile, non un Messia mandato dal cielo ma politici dotati di buona volontà, coraggio, onestà e capaci di creare e trasmettere una narrativa per il futuro di Roma. Staremo a vedere cosa ha in serbo l’avvenire, di certo queste qualità sono mancate a tutti i sindaci di recente memoria.
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Una citta invasa da sporcizia e topi, soffocata da bancarelle e auto. Che va avanti nel disinteresse ?di tutti. E dove a guidare le proteste per la legalita e la famiglia a capo dell’esercito di ambulanti