Dei bei tempi trascorsi alla facoltà di Giurisprudenza, tra le molte cose, ricordo con affetto il buon prof. Stefano Solimano, docente di Storia del Diritto Medievale e Moderno. Apprezzavo il modo in cui ci raccontava le origini degli istituti che diedero vita agli ordinamenti giuridici odierni, ricordandoci sempre, con candido fervore, che l’Italia è la “culla del diritto”. Purtroppo, dopo pochi anni di pratica, tra cancellerie ed aule di tribunali, ho dovuto constatare che la lusinghiera espressione utilizzata dal mio insegnante per definire il nostro bel Paese, era tuttavia incompleta e che ha ragione chi la integra, specificando che l’Italia è la culla del diritto, e la tomba della giustizia.
Negli ultimi mesi abbiamo sentito ripetere più volte, dalla stampa nazionale e da quella estera, che se l’Italia intende seriamente una via d’uscita dall’impasse della stagnazione economica, deve anche intervenire sui tempi della giustizia civile: effettivamente, secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili, offerti dalla Commissione Europea e da World Bank – risalenti al 2012 – quanto a lunghezza media dei processi di primo grado siamo secondi soltanto alla Grecia.
È di palmare evidenza che una giustizia lenta equivale ad una ingiustizia; normalmente, quando un cittadino o un’impresa si rivolgono ad un Tribunale per la tutela di un loro diritto, hanno interesse a che questo venga soddisfatto celermente, posto che, in molti casi, una situazione di incertezza o di ritardo potrebbe generare effetti pregiudizievoli anche gravi nei loro confronti. Si pensi, ad esempio, ad un’impresa che versi in una situazione di difficoltà economica e finanziaria, che abbia diritto alla restituzione di un ingente importo versato ad una controparte contrattuale, rivelatasi poi inadempiente. Una definizione rapida del processo potrebbe rappresentare, in casi come questi, una boccata d’ossigeno o, addirittura, determinare la sopravvivenza dell’azienda.
L’esempio appena illustrato, peraltro, lascia intendere perché gli investitori esteri guardino con riluttanza all’Italia, timorosi di dover instaurare un contenzioso alle nostre condizioni e secondo le nostre regole: il Financial Times, in tempi recenti, ha affermato senza mezzi termini che la giustizia civile italiana è “goffa”.
È ancora presto per conoscere gli effetti della riforma della giustizia civile attuata dal premier Renzi attraverso l’introduzione del decreto legge n. 132 del 2 settembre 2014; personalmente, dubito che strumenti come il nuovo istituto della negoziazione assistita degli avvocati e la riduzione delle ferie dei magistrati possano, da soli, sortire un qualche effetto di rilievo.
Pur ammettendo che abbia senso far leva sul rafforzamento dei metodi alternativi di risoluzione della controversie (cosiddetti ADR), come la mediazione e la negoziazione assistita, ovvero intervenire sul numero dei giorni di sospensione feriale dei giudizi, per intervenire in modo decisivo sulle lungaggini processuali non si può prescindere da un ripensamento radicale della struttura dei procedimenti, magari mutuando qualche istituto di successo dal mondo anglosassone e dai loro sistema di Common Law.
In questi Paesi il modello di giustizia civile è quello dell’adversarial system, che prevede una gestione del procedimento essenzialmente lasciata alle decisioni delle parti contrapposte (c.d. control party), viste come competitors nel contraddittorio, sino alla definizione del processo. Il suddetto sistema sottende una visione ispirata ai modelli del liberismo economico, fondata sui principi dell’iniziativa individuale e del laissez faire, secondo cui il processo civile è visto come il luogo ideale della libera competizione delle parti.
In questo contesto, tuttavia, il giudice, terzo ed imparziale, non è esclusivamente garante, come nel nostro sistema di civil law, della regolarità del processo, bensì anche della sua efficacia. In quest’ottica, il sistema anglosassone prevede l’attribuzione in favore del giudice di una funzione di case management: con questo termine si suole indicare la facoltà del giudice di intervenire, con gli strumenti a sua disposizione, al fine di gestire e governare i tempi del processo.
In Inghilterra, per esempio, in virtù di tale attribuzione, il giudice può scegliere quale procedura adottare ai fini della decisione di una causa: per esempio, qualora una parte introduca un giudizio secondo il rito ordinario, laddove il giudice ritenga che le questioni poste alla sua attenzione siano di semplice soluzione, può decidere di convertire il procedimento definendolo secondo le regole del rito sommario, senza assumere ulteriori prove oltre a quelle già dedotte con l’atto introduttivo. Sempre nella sua veste di manager del giudizio, nel caso in cui maturi il suo saldo convincimento prima della conclusione “regolare” del processo, il giudice può interromperlo e procedere ad una decisione anticipata. In qualsiasi stato del processo, ravvisandone i presupposti, egli può indurre le parti a transigere; inoltre, ove individui comportamenti delle parti volti a protrarre il procedimento nel tempo, per sottrarsi all’esecuzione delle proprie obbligazioni, e dunque con evidenti fini dilatori, il giudice può infliggere sanzioni nei loro confronti.
Introdurre istituti come quelli sopra analizzati in Italia, modificando, al contempo, le norme che regolamentano la carriera dei magistrati, il cui avanzamento è semplicemente legato all’anzianità, in modo totalmente avulso dal merito e dall’effettivo apporto del lavoro degli stessi all’efficienza del sistema giudiziario, potrebbe rivelarsi una buona strategia. Un giudice che sia anche manager del processo, premiato in base a criteri di valutazione idonei a rivelarne l’effettiva capacità – di giudicare, ma anche di contribuire ad un sistema giudiziario efficiente – infatti, sarebbe senz’altro più incentivato a intervenire sui tempi e sui costi dei procedimenti cui è preposto.
Introdurre gli strumenti del case management, quanto meno nelle liti che vedono contrapposte due imprese, regolate dal c.d. rito societario, oltre a determinare uno snellimento dei processi ed una maggior efficacia della tutela giurisdizionale, potrebbe contribuire a far apparire la nostra giustizia civile meno goffa e più business friendly agli occhi degli investitori esteri.