Quelle che si svolgono oggi si annunciano come le elezioni più incerte nella storia del Regno Unito. I sondaggi danno labour e tory in perfetta parità, al 33%, cioè oscillanti tra i 280 e i 300 seggi, entrambi lontani dai 323 seggi (su 650 totali) necessari per avere la maggioranza assoluta alla Camera.
Per cui due sono gli esiti possibili: un governo di minoranza oppure, di nuovo, un governo di coalizione; è improbabile invece che si torni a nuove elezioni. Costituzionalmente spetta al governo uscente di cercare di formare un governo (anche se nel 2010 non fu così, perché i liberali sorprendentemente avviarono le trattive con il partito più votato, cioè il partito conservatore).
Il partito liberale di Nick Clegg subirà in queste elezioni un deciso ridimensionamento del suo peso elettorale e non riuscirà a conseguire più di 25-30 seggi. In 5 anni di governo con i tory, a causa delle decisioni impopolari adottate specie ad inizio legislatura, ha più che dimezzato i consensi passando dal 23% del 2010 al 10-12% attuale.
Presumibilmente, dovesse scegliere, seguiterà l’alleanza al governo con il partito conservatore. In base al risultato che otterranno, sia i conservatori che i libdem, questi ultimi potrebbero essere ancora una volta decisivi per costituire una maggioranza di governo così come lo furono nel 2010, anche se, allo stato attuale, il loro apporto non sembra sufficiente a garantirla.
L’Ukip di Nigel Farage, il partito populista anti-europeo che alle elezioni europee si classificò come primo partito nazionale (27,5% dei voti, ma si votava col sistema proporzionale), non dovrebbe ottenere più di 2 o 3 deputati (la stessa elezione di Farage nel suo collegio di South Thanet è a rischio). Nei sondaggi è dato al 10-12%, una percentuale di voti bassa rispetto alla sua enorme esposizione mediatica, ma che comunque danneggerà i laburisti e, soprattutto, conservatori.
In grande ascesa è invece lo Scottish National Party (SNP) di Nicola Sturgeon, partito localista, che fu promotore del referendum – perso – per secedere dal Regno Unito, e che diverrà, secondo i sondaggi, la terza forza del parlamento. Anche chi si espresse contro nel referendum sembra intenzionato a votarlo per ottenere maggiore autonomia regionale e portare le istanze scozzesi nel parlamento di Westiminster.
Il Partito Nazionalista Scozzese otterrà la stragrande maggioranza dei seggi in palio (circa 50 su 56, a scapito dei laburisti). Un risultato di grande rilievo se si considera che alle ultime elezioni il partito scozzese ebbe solo 6 seggi. Il sistema elettorale maggioritario, infatti, favorisce un partito concentrato in una parte del territorio piuttosto che uno territorialmente omogeneo a livello nazionale.
David Cameron, che in questi giorni ha ricevuto gli endorsements di Economist e Financial times, è leggermente favorito nella competizione.
Ha promesso che si impegnerà ad azzerare il deficit entro il 2020, che non aumenterà le tasse, e anzi ridurrà quelle sul reddito, che taglierà ulteriormente la spesa pubblica per 12 miliardi e creerà 2 milioni di nuovi posti di lavoro nell’arco di 5 anni.
In campo economico, col suo programma di “austerità espansiva” (secondo la definizione coniata da Alberto Alesina), Cameron può vantare finora ottimi risultati: il pil è cresciuto nel 2014 in maniera tumultuosa (2,8%), il tasso più alto tra i paesi occidentali, e le previsioni dei maggiori istituti economici la stimano intorno al 3% quest’anno; la disoccupazione si assesta oggi al 5,6%, meno della metà di quanto si registra nell’Eurozona; il governo ha tagliato 500.000 posti nel settore pubblico e creato 1,8 milioni di nuovi posti nel privato (anche se un milione di questi sono riconducibili a contratti di lavoro estremamente flessibili, forme di precariato quasi assolute); in 5 anni il deficit pubblico è stato dimezzato, pur rimanendo ancora abbastanza elevato (5,7% del pil); la spesa pubblica, che con i governi laburisti era cresciuta a dismisura (del 60% in 13 anni, da 127 a 202 miliardi di sterline), è stata tagliata di 5 punti percentuali rispetto al 2010 (circa 50 miliardi).
Null’ultimo anno, nonostante si sia cercato di limitarne il flusso, sono arrivati in Inghilterra centinaia di migliaia di immigrati europei, garantendo enormi benefici all’economia nazionale.
La domanda sorge spontanea: perché allora Cameron non è nettamente favorito in queste elezioni?
La spiegazione più convincente l’ha fornita Bill Emmott sul Financial times: “i potenziali elettori conservatori non hanno ancora sentito i benefici della ripresa, la forte crescita del pil non è stata accompagnata da un aumento dei redditi e di tenore di vita”. Il pil procapite infatti è cresciuto solo del 4,8%, ancora leggermente inferiore rispetto ai livelli precrisi. Una seconda ragione attiene alla crescita delle disuguaglianze economiche.
Si dice spesso che l’elettorato inglese vota i conservatori quando vuole che la ricchezza venga prodotta, e i laburisti quando invece ritiene necessario redistribuirla.
Inoltre, la crisi economica del 2007 ha generato nella psicologia collettiva inglese una forte sfiducia verso il sistema economico britannico e le sue prospettive.
In politica estera David Cameron è stato un leader alquanto mediocre. Tutti i commentatori e gli analisti sono concordi nel denunciare la grande perdita di influenza della Gran Bretagna nello scenario internazionale. Mai negli ultimi 20 anni il Regno Unito era stato così marginale e disinteressato alle vicende della politica estera mondiale (si pensi alla questione ucraina o al contrasto del terrorismo). Cameron in questo ambito di policy manca totalmente di capacità di visione e ha commesso molti errori (il veto alla nomina di Junker alla guida della Commissione Europea è solo l’ultimo di una lunga serie). Ma queste sono considerazioni valide tutt’al più per un giudizio storico-politico e che interessano poco gli elettori (fa eccezione Blair, associato ancora oggi alla rovinosa guerra in Iraq).
Rimane rilevante la questione europea.
Nelle elezioni non si è parlato quasi per nulla di Europa, se non negli ultimi giorni. Eppure incombe il referendum annunciato da Cameron nel 2017 per decidere la permanenza della Gran Bretagna in Europa. Su questo va dato atto ai laburisti di avere una posizione più chiara e coerente: sono contrari al referendum e se vinceranno loro le elezioni, non ci sarà. La Brexit, cioè l’abbandono dell’Ue, avrebbe conseguenze nefaste per l’economia inglese, e porterebbe in breve tempo all’indipendenza scozzese.
Margaret Thatcher, a cui Cameron dice di ispirarsi, non avrebbe mai sottoposto una decisione simile a referendum.
Bill Emmott ha scritto a proposito una riflessione molto interessante: “Oggi molte persone pensano a Margaret Thatcher come a un’anti-europea convinta e rammentano un discorso da lei pronunciato al College of Europe a Bruges che segnò l’inizio dell’euroscetticismo britannico. Ma non è così. Margaret Thatcher esplicitò la sua visione politica dell’Ue, è vero. Ma sostenne anche, con altrettanta chiarezza, la posizione strategica e a lungo termine che la Gran Bretagna doveva assumere nell’Ue. «Il nostro destino è in Europa, come parte integrante della Comunità», disse”.
Cameron ha scelto invece di assecondare l’antieuropeismo di una parte del suo partito, con l’intento di sottrarre a Farage uno dei suoi principali argomenti di propaganda. Anche se è vero che, come dice Martin Wolf, “se vince Cameron è più vicino il referendum, non l’uscita dall’Europa” visto che la maggioranza della popolazione rimane contraria.
Il suo sfidante, Ed Miliband, è una figura politica scialba.
E’ un politico spiccatamente di sinistra (il padre era un preclaro intellettuale marxista), si è imposto sul fratello David grazie all’appoggio, determinante, dei sindacati e ha riportato il labour su posizioni di sinistra socialista ripudiando il new labour, in quella che appare quasi come una riedizione della sinistra negli anni 70.
Red Ed, come viene soprannominato dalla stampa inglese, ha dilapidato in un anno un vantaggio di 10 punti maturato sui conservatori. E ora si ritrova a rincorrere l’avversario.
Il suo programma economico, inviso alle imprese, è fondato principalmente sull’aumento del salario minimo e sull’aumento delle tasse ai ricchi. Al contempo il suo programma è meno radicale di quanto ci si aspetterebbe, proponendosi ad esempio di ridurre il deficit.
Esclude categoricamente alleanze col partito scozzese, per via delle pressioni dei media. Ma i conti si faranno dopo le elezioni.
Dal punto di vista politologico queste elezioni dovrebbero confermare, con l’aumento della frammentazione partitica, la fine del tradizionale sistema bipartitico inglese.
Periodicamente gli inglesi dibattono della necessità di abolire il sistema elettorale maggioritario uninominale – first past the post – in favore di un sistema proporzionale più rappresentativo.
Nel referendum del 2011 però la maggioranza dei votanti votò contro la sostituzione del sistema maggioritario con uno di voto alternativo.
I vantaggi e gli inconvenienti di tale sistema elettorale sono noti: avvantaggia i partiti più grossi, sovrarappresentandoli, e penalizza quelli più piccoli, che vengono pesantemente sottorappresentati.
E il maggioritario a turno unico è un sistema elettorale che ha, almeno finora, garantito governabilità ed efficienza.
Sartori insegna che se il localismo si afferma, la condizione stessa del bipolarismo si dissolve. E mai come oggi il territorio inglese è politicamente differenziato.
Il sud dell’Inghilterra è largamente dominato dai conservatori. Il nord dell’Inghilterra è tradizionalmente laburista. La Scozia è oggi appannaggio del partito nazionalista scozzese.
Data l’estrema aleatorietà del voto è molto difficile, se non impossibile, stabilire già da ora chi vincerà le elezioni e se si formerà un governo di coalizione o di minoranza. Non resta che attendere per saperlo.
* ha collaborato Giovanni Caccavello.