Lasciando il M5S Luigi Di Maio ha raggiunto il culmine di un percorso politico che ha rappresentato la più grande svolta a U della storia recente della politica, quello stesso Di Maio, per intenderci, che invocava il vincolo di mandato perché trovava intollerabile che chi abbandonava il proprio partito rimanesse in parlamento.
Ascoltando le sue parole mi è sembrato di assistere a uno di quei video satirici in cui si doppia il protagonista per fargli dire l’esatto contrario di quello che uno si aspetterebbe: per esempio il Papa che impreca ripetutamente, il presidente Mattarella che fa proposte sconce a una signora, Berlusconi che riconosce le grandi conquiste storiche del comunismo o Rocco Siffredi che elogia le virtù della castità.
Negli ultimi mesi e con il suo ultimo discorso Di Maio ha sistematicamente rinnegato e contraddetto idee, toni, narrative e stilemi che hanno caratterizzato la sua figura e la sua azione politica.
Ha rivendicato la necessità di non essere ambigui, proprio lui che ha guidato un partito che ha fatto del rapporto ambiguo con elementi e idee indegne dei peggiori bar di Caracas un modo per catturare voti. Ci ha parlato dei suoi sforzi per trovare nuove fonti di gas, dopo essersi schierato contro il TAP e aver sostenuto il ridicolo “referendum sulle trivelle” che vendeva il sogno di una transizione ecologica istantanea e senza costi. Ha auspicato l’unità di quell’Europa che voleva sfasciare. Ha fatto appello al senso di responsabilità nelle istituzioni, lui che ha provocato il richiamo dell’ambasciatore francese in Italia per aver flirtato, quando era vicepresidente del consiglio, con gruppi insurrezionalisti di uno stato alleato. Ha rivendicato la collocazione atlantista dopo aver coccolato un elettorato che dalla NATO voleva uscire. Ha stigmatizzato chi stringeva l’occhio ai novax, proprio lui che ha voluto candidare Sara Cunial nonostante le sue deliranti affermazioni per non perdere i voti di certe minoranze, ha criticato l’anti-scienza dopo aver costruito il partito con più istanze antiscientifiche della storia repubblicana (dai vaccini a Xylella, passando per la battaglia contro il glifosato, l’olio di palma e gli OGM). Ha parlato di “idee concrete e realizzabili”, di “pragmatismo”, di “talenti”, di “esperienza”, di “capacità personali” e di “studio”. Ha detto che “uno non vale l’altro”, sputando nel piatto in cui aveva mangiato, cioè su quel “uno vale uno” che aveva entusiasmato milioni di ingenui. Ha rimarcato la necessità di dire la verità su quel che “si può fare e quel che non si può fare” dopo aver venduto più sogni di un venditore di olio di serpente (non ultima l’istantanea abolizione della povertà). Ha promesso che non ci sarà spazio per “populismi, sovranismi ed estremismi”. Ha menzionato ed elogiato quel presidente Mattarella per cui aveva richiesto l’impeachment e quel Mario Draghi che fino a qualche anno fa rappresentava il simbolo di quel sistema che voleva rovesciare.
Infine, ed è stato uno spettacolo davvero surreale, è stato applaudito da quegli stessi parlamentari che hanno condiviso il suo identico percorso in una grande e catartica auto assoluzione generale.
Sono stato stupito, e financo indispettito, nel vedere che molte persone, che sono state sempre “anti-grilline”, hanno apprezzato e si sono fatte sedurre dal nuovo Di Maio. Un po’ deve essere stato il classico meccanismo psicologico per cui il nemico del nostro nemico diventa sempre nostro amico (dove il nemico principale in questo caso è Giuseppe Conte). Si tratta di un meccanismo deleterio che ha molto successo in politica e che ha reso Berlusconi prima un mostro e poi una persona ragionevole quando il mostro è diventato Salvini (che magari un giorno sarà coccolato dalla sinistra in chiave anti-Meloni).
Ma c’è qualcosa di più, forse quel fascino perverso della redenzione (riflesso di un atavico moralismo cattolico) che ci fa stimare il (supposto) redento più di colui che è sempre stato retto, un po’ come accade a certe donne fragili che si innamorano di un uomo violento che ha promesso di cambiare, ma non sono affascinate da un uomo che violento non lo è mai stato.
Ma al di là delle mie analisi psicologiche che lasciano il tempo che trovano, Di Maio non è semplicemente credibile. Qui non si parla dell’uomo stimabile che confessa con un po’ di vergogna di avere simpatizzato per movimenti estremisti quando era adolescente. Di Maio è già troppo vecchio per venderci questa favoletta. Delle due l’una: o Di Maio negli anni passati ha mentito scientificamente con un cinismo che farebbe rabbrividire Giulio Andreotti, e allora non ci possiamo fidare, o era assolutamente convinto di quello che diceva. Ma anche in questo caso non ci potremmo fidare perché significherebbe semplicemente che Di Maio è il vuoto pneumatico in termini di visione politica, economica e sociale. Un vuoto che può essere riempito da qualunque cosa a seconda delle circostanze e questo lo renderebbe inutile e/o pericoloso.
Passati ampiamente i trent’anni anni un uomo può ancora maturare ma qualche punto fermo lo deve avere, non può essere ancora un foglio bianco su cui tutto può essere scritto. Se così fosse semplicemente non esisterebbe un vecchio e un nuovo Di Maio perché semplicemente non esisterebbe un Di Maio statista con un’autonoma capacità di elaborazione e di proposta (poi per carità, di peones il parlamento è sempre stato pieno).
Mi viene in mente un passaggio del libro “Il Vangelo secondo Gesù” di Saramago, scrittore con una prosa semplicemente sublime. Nel libro Saramago rovescia mirabilmente i ruoli del ladrone buono e del ladrone cattivo, dove il secondo è quello con maggiore sensibilità e onestà intellettuale perché rifiuta di esibire il suo pentimento: “…questo misero relitto può solo essere il Cattivo Ladrone, in fin dei conti un uomo rettissimo, cui è rimasto quel po’ di coscienza che gli impedisce di fingere di credere, al riparo di leggi umane e divine, che un minuto di pentimento basti per riscattare una vita intera di malvagità…”
Di Maio è invece il ladrone buono, che pensa che tutto possa essere dimenticato senza pagare un prezzo, senza fare un passo indietro, convinto che basti saltare da un carro all’altro per continuare la sua folgorante carriera e per conservare i suoi privilegi.
D’altronde, parafrasando un altro grande scrittore, in Italia la furbizia usurpa spesso il nome di intelligenza ed è apprezzata come se lo fosse.
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:)