Il sole freddo di novembre illumina la periferia di Bari mentre mi dirigo a casa di Anna Rita. Citofono, mi risponde una voce femminile, entro in un piccolo cortile. Al secondo piano dell’edificio mi affaccio da una porta semiaperta, mi scuso per l’anticipo: ho letto male l’orario, Anna Rita deve ancora terminare la sessione di fisioterapia. Sua madre Patrizia mi offre un caffè e mi intrattiene mentre la fisioterapista assiste la ragazza camminare per l’appartamento. Anna Rita ha ventotto anni, porta i capelli corti e sorride spesso; zoppica vistosamente a causa di un’emiparesi spastica che ha riguardato la parte destra del corpo, non articola bene le parole ma risponde molto chiaramente alla mia prima domanda sulla sua storia: “Mi chiamo Anna Rita, e sono sopravvissuta ad un tentato femminicidio”.
Nelle due ore successive, in una cucina già addobbata per Natale, mamma Patrizia mi ha aiutato a ricostruire la storia di una, nessuna e centomila vittime di violenza domestica: sua figlia. Anna Rita ha ricordi confusi di quella che era la sua vita prima del coma; apprendo di un’adolescenza spensierata, dei sacrifici dei genitori per permetterle di diplomarsi presso un istituto tecnico commerciale ad indirizzo turistico. “Era una ragazza molto brava con le lingue”, mi dice Patrizia, “conosceva l’inglese, il francese e il tedesco”. Anna Rita lavorava, arrotondava impartendo ripetizioni e aiutava in casa ad assistere la nonna malata di Alzheimer. Sul finire dell’aprile del 2016, dopo circa dieci anni di relazione, aveva preso la decisione di andare a convivere con il suo ragazzo in un piccolo appartamento non troppo lontano dalla casa dei genitori. Il 12 giugno dello stesso anno inizia l’incubo: una chiamata sveglia i genitori di Patrizia nel cuore della notte, “vostra figlia è in ospedale, le sue condizioni sono gravi”. Inizialmente pensano ad un incidente automobilistico, in ospedale apprendono dal ragazzo che “Anna Rita è caduta nella doccia, l’ho trovata così”. La ragazza è in coma a causa di un’emorragia cerebrale bilaterale, ha il setto nasale devastato e la prognosi dei medici è impietosa: “vostra figlia potrebbe avere 72 ore di vita, e se anche dovesse svegliarsi è probabile rimanga in stato vegetativo”. “Mi sentivo un oggetto, facevo le cose come un automa”, dice mamma Patrizia delle settimane successive, poi ricorda la commozione per l’emozione provata quando il 4 luglio, il giorno del compleanno del papà, sua figlia ha mosso per la prima volta la mano. Anna Rita resterà in coma fino al 6 luglio. Al risveglio non ricorda nulla della sua adolescenza, della sua infanzia solo pochi e confusi ricordi. In un primo momento non riconosce neanche i suoi familiari. Viene trasferita a San Giovanni Rotondo per la riabilitazione, e qui il 19 luglio compie i suoi 24 anni. Patrizia incalza raccontandomi degli anni di travaglio, del senso di abbandono e delle tante strutture girate; dei medici, dei logopedisti, degli psicologi, delle operazioni, di quando il marito ha perso il lavoro e non avevano la possibilità finanziaria neanche di raggiungere la clinica dove Anna Rita si trovava in quel momento. “Mio marito è uno che fa mille cose”, dice sorridendo, ed anche quella volta riescono ad arrangiarsi, mentre sua figlia recupera molto più di quanto i medici si sarebbero aspettati. Anna Rita mi racconta di altri ragazzi con cui ha fatto amicizia nelle sue lunghe residenze nei centri di riabilitazione, di un mondo in cui “ci si fa forza a vicenda”, delle “lacrime piante di nascosto”.
Nel frattempo la perizia dei medici legali racconta una storia diversa da quella del ragazzo, si procede d’ufficio e la questura fa partire le indagini: il ragazzo, le famiglie, i conoscenti vengono interrogati, la casa messa sotto sequestro. “La sera prima avevano avuto una piccola discussione”, riferisce la cognata, “poi Anna Rita non è più voluta scendere dalla macchina perché aveva mal di testa”. Apprendo da Patrizia che questa, come molte altre, era una tragedia annunciata: mi racconta di altri episodi di violenza a cui aveva assistito. Di quando lei provava a lasciarlo e poi si chiudeva in bagno mentre lui prendeva a pugni la porta, dei lividi nascosti, delle scenate di gelosia. “Era ossessivo, ossessionato da Anna Rita”, mi racconta la sorella Sabrina, rincasata da poco, “le proibiva di vedersi con la sua migliore amica”. Oggi la vita di questa ragazza è cambiata per sempre: la sua vita sociale è distrutta, e prima che riacquisti una parziale autonomia passerà molto tempo.
Sarebbe bello pensare a questo come ad un episodio isolato, ma purtroppo la realtà torna brutalmente a ricordarci che in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una violenza fisica o sessuale, e che tre quarti delle vittime subisce violenza dal partner, dai familiari o dagli amici. Nonostante i sempre più accorati appelli istituzionali e sui social, la voce delle sopravvissute troppo spesso rimane inascoltata. Questa storia di ordinaria violenza non ha ancora avuto un epilogo. Il prossimo gennaio, a più di quattro anni dall’accaduto, si terrà la prima udienza del processo: i reati contestati sono quelli di lesioni aggravate, occultamento di prove, falsa testimonianza e omissione di soccorso, in quanto, stando ai tabulati telefonici, l’ambulanza è stata chiamata con parecchio ritardo. Dei tanti che sapevano, ancora oggi per paura pochi accettano di essere chiamati a testimoniare, mi riferisce con rammarico Patrizia.
Sono ormai passate più di due ore dal mio arrivo. Ringrazio la famiglia per l’ospitalità e mi congedo. Camminando mi fermo ad osservare un ragazzo in bicicletta, avrà tredici anni e un’adolescenza randagia, forse un’altra storia dimenticata tra il cemento della periferia. Salgo in auto ed abbandono quel blocco di caseggiati.