Politica interna

Il liberalismo è diventato una scatola vuota?

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La cifra della politica italiana è da anni, almeno trenta, la confusione. Fiumi di urla, insulti, sceneggiate, propaganda. Oltre al fumo, tuttavia, preoccupa l’arrosto. Perché il frutto più marcio sono le policies create per guadagnare consenso e accontentare clientele. Tutto senza criterio, senza una visione di insieme. Manco fosse il calciomercato del Genoa.

In questo marasma, infine, è stato perso, travisato, mutato il valore delle parole. Come in una Babele post-moderna, le persone parlano ma non si comprendono. E non è un problema di forma, bensì di sostanza. Il dibattito politico, lacerato dalla ricerca ossessiva degli slogan e dagli spettacoli aberranti nei salotti televisivi, è diventato una specie di osteria piena di ubriachi che gridano frasi sconnesse tra loro. I modi con cui venivano definiti certi orientamenti politici o certi provvedimenti sembrano aver perso di significato.

Per carità, c’è chi prova a fare chiarezza. Alberto Mingardi, per esempio, nel suo libro “La verità, vi prego, sul neoliberismo” ha tentato di chiarire cosa afferisca realmente a tale dottrina politica. Il problema è che per ogni Mingardi, ci sono dieci cialtroni che saturano l’aria con della propaganda fallace.

Pensiamo al vocabolario stupidamente creativo di Diego Fusaro, che ha fatto diventare delle stronzate colossali dei veri e propri brand. Turboliberismo. Capitalismo apolide. Vestale delle multinazionali. E si potrebbe continuare per ore. Fusaro, in arte Fuffaro, ha contribuito a creare l’ennesima narrazione mostruosa in cui ogni male del mondo trova un solo colpevole. Una monocausalità che non esiste per nessun evento della vita di un singolo, figurarsi per l’economia globale.

Sempre intorno alla parola liberale si è detto di tutto e di più. Pensiamo all’editoriale di Alessandro Trocino sul Corriere nell’Agosto 2019, in cui l’autore spiegava che Giggino Di Maio fosse liberale. Oppure al più recente editoriale di Scalfari su Repubblica, in cui ha definito Conte “certamente un liberale con una venatura notevole di socialismo”.

Si può parlare poi di Emanuele Felice, responsabile economico del PD zingarettiano, che è sempre stato fantasioso nel classificare gli orientamenti politici. Dopo aver sostenuto che la Russia di Putin e la Lega di Borghi-Bagnai dimostrassero l’autoritarismo insito nel liberalismo, è arrivato a dire che Lukashenko è l’ultimo erede di Hayek e Friedman.

Il risultato di questo caos, volontario e involontario, è stato demonizzare, svilire ed erodere quel poco che rimaneva del liberalismo in Italia.

Pure tra i liberali, o meglio, tra chi tale si definisce, non va meglio. Ci sono i liberal, che spiegano come l’intervento statale nell’economia sia cosa buona e giusta, quindi parlano solo di canne e immigrati. Ci sono i conservatori liberisti che scelgono Bolsonaro come sex simbol e, troppo spesso, si eccitano pensando a Pinochet, gente per cui permettere a una coppia gay di sposarsi è assimilabile alla zoofilia. Ci sono i fedelissimi apostoli di Mises e Rothbard, per cui qualunque minimo intervento dello Stato nell’economia autorizza a parlare di comunismo o socialismo reale. Ci sarebbero decine di altri esempi simili.

La mia critica non è sulla legittimità di queste opinioni, ovviamente questo non mi riguarda. Tuttavia, sostenere che ciascuna di queste tesi sia la definizione di liberalismo è evidentemente sbagliato. Il liberalismo non si può fare a fettine. Non si può prendere il pezzo che ci piace di più ed elevarlo a verità assoluta, travisando o cancellando tutto il resto. E questo vale per ogni dottrina politica o scuola economica. Pensiamo a quello che gli eredi di Keynes spacciano per pensiero di Keynes.

Si può, tutt’al più, ammettere di pensarla diversamente su alcuni temi. Ma questo modifica il proprio orientamento politico, non la dottrina in sé. E per questo le parole sono importanti. Perché grazie a quelle si può avere un dibattito decente. Da un liberalconservatore non mi aspetto le stesse idee di un liberalsocialista, né di un liberaldemocratico o di un liberalpopolare. Esattamente come mi aspetto che ognuno di questi non si aspetti di essere erto a paladino del liberalismo in assoluto.

Sembra una questione di lana caprina, ma non lo è. Perché svuotando le parole del loro significato non esistono più confini e, quindi, vale tutto. E può capitare che i liberalconservatori sostengano Orbàn o che i liberaldemocratici sostengano Conte. E può capitare che dei liberalpopolari siano contrari al matrimonio gay o che dei liberalsocialisti pretendano tasse spropositate per i ricchi. Possono farlo perché violentano il termine al punto di distorcerne il significato e, a quel punto, sono in grado di convincere l’opinione pubblica che delle opinioni puramente conservatrici o socialiste siano intrinsecamente liberali, solo perché loro affermano di avere il suffisso più bello.

Questo non è per dire che la frammentazione dell’universo liberale debba aumentare ulteriormente. Semplicemente, essere consapevoli della propria identità è l’unico mezzo per potersi relazionare con gli altri. Nella vita, come in politica. Soprattutto nel caso da me auspicato di collaborazione tra forze politiche che vengono da storie (e suffissi) diversi.

Alla fine di questo discorso, tuttavia, è naturale chiedersi se valga la pena dire di essere liberali. Una parola che vuol dire tutto, ma non significa nulla nemmeno per chi dice di esserlo: è quasi impossibile da usare. Purtroppo è diventata poco più di una scatola vuota, da riempire a piacimento. Come le destre si sono reinventate con il sovranismo, forse anche per i liberali è arrivato il momento di mettere da parte i santini del novecento e iniziare a guardare al futuro. Il nostro Dugin (o Bannon) c’è già tra l’altro: si chiama Steven Pinker.

2 comments

Luca Celati 04/09/2020 at 11:30

L’articolo non fa una grinza. Sfortunatamente, l’analfabetismo in materia economica che regna incontrastato in Italia da decenni (lo dicono le statistiche OCSE, non io) rappresenta un terreno fertile per ignoranza e, a traino, rapide etichette e bollature ideologiche. E la confusione pseudo-keynesiana post-2008 rappresenta un fenomeno globale che ci porteremo dietro ancora per un bel pezzo. Nel frattempo raccomando, anche a chi crede fermamente nel liberismo, di ripassarsi un po’ di storia delle teorie economiche del 20esimo secolo per fare pulizia da molte delle false idee che sono state messe in giro. L’ottimo libro “Keynes versus Hayek” mi ha aperto gli occhi su come le posizioni di alcuni dei principali esponenti nei campi avversi non fossero cosi’ radicali ed ideologicizzate come si crede. Friedman, ad esempio, comunemente additato come il Satana del liberismo, partiva da simpatie socialiste e, anche ad uno stadio avanzato della vita, considerava lo Stato come un male comunque necessario. Del resto, pure il sottoscritto pensa che esistano alcuni campi – in primis la Legge – che non possono essere lasciati senza adeguata sorveglianza. Se il capitalismo ha fallito da qualche parte, poi, quella è proprio negli investimenti in istruzione e scolarizzazione, i migliori anticorpi contro ignoranza e tutte le sue nefaste conseguenze, teorie economiche farlocche comprese.

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Svicolone Sessantuno 23/11/2020 at 14:35

ottimo articolo

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