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Giustizia

“Qualified immunity”: la giurisprudenza che copre la police brutality americana

Un paio di giorni fa, il proprietario di un negozio a Minneapolis, in Minnesota, ha chiamato la polizia per denunciare un uomo, George Floyd, accusandolo di aver usato una banconota da venti dollari falsa. Secondo quanto si legge sui giornali, gli agenti arrivati sul posto avrebbero trovato Floyd nella sua macchina e, quando questi si è rifiutato di uscirne, lo avrebbero ammanettato e immobilizzato a terra. Alcuni passanti hanno registrato l’accaduto: il video, drammatico, mostra Floyd ripetere «I can’t breathe» – «non riesco a respirare», mentre un poliziotto gli tiene il ginocchio premuto sul collo. Floyd, 46 anni, è morto poco dopo in ospedale.

 

George Floyd era un uomo nero: com’è facilmente comprensibile, questa circostanza ha riacceso i riflettori su un endemico e purtroppo esteso problema di police brutality, che miete vittime, in particolare, proprio tra cittadini neri. Sono noti i casi, altrettanto drammatici, di Trayvon Martin (17 anni, ucciso nel 2012) e Eric Garner (34 anni, ucciso nel 2014), che sono stati all’origine del movimento #BlackLivesMatter, che molto ha fatto e continuerà a far molto discutere. Tra le questioni che questi casi hanno contributo a riavviare, ha raggiunto più direttamente il grande pubblico soprattutto quella in ordine alla sopravvivenza o meno, nella società americana, di atteggiamenti di institutional racism nei confronti dei cittadini neri. Ma non è l’unico argomento che merita di essere affrontato. Ce n’è un altro, infatti, che, per la propria tecnicalità giuridica ha interessato una ristretta cerchia di osservatori, ma che ha delle potenzialità di primaria importanza. Si tratta dell’invocazione, indirizzata alla Corte Suprema degli Stati Uniti, di abbandonare la cosiddetta doctrine of qualified immunity, una teoria giuridica che, offrendo una speciale protezione giurisdizionale ai pubblici ufficiali, è finita per diventare una delle cause più rilevanti degli atti di violenza di cui abbiamo detto.

 

Nel 1871, il Congresso americano adottò il Ku Klux Klan Act, una legge pensata per garantire i diritti civili dei cittadini neri. La norma più importante è quella oggi nota come 42 U.S.C § 1983, in forza della quale è possibile convenire in giudizio per il risarcimento dei danni un pubblico ufficiale che, nell’esercizio delle proprie funzioni, abbia violato un diritto altrui. Il testo della norma fa riferimento a «deprivation of any rights, privileges, or immunities secured by the Constitution and laws»: a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, però, con una serie di sentenze, la Corte Suprema ha “riscritto” questo passaggio, aggiungendovi la necessità che il diritto violato fosse «clearly established» dalla sua giurisprudenza. È del tutto evidente il senso dell’intervento in parola: preoccupata che un’esposizione “eccessiva” al rischio di controversie giudiziarie potesse influenzare negativamente il rendimento delle forze di polizia, la Corte Suprema ha voluto limitare la portata applicativa del § 1983, nel tentativo di proteggere i pubblici ufficiali che «make reasonable but mistaken judgments about open legal questions» (Ashcroft v. al-Kidd[2011]). Benché lo standard del «clearly established» sembri, astrattamente considerato, piuttosto ragionevole, questo è diventato uno scudo per un’impunità troppo vasta e ingiustificata. Come ha notato Clark Neily, giurista e avvocato presso il Cato Institute, «the result of this aberrant legal doctrine is that police may shoot, beat, kill, and fatally neglect people in their custody, practically at will» (su questo sito, promosso dal Cato, è possibile trovare ulteriori informazioni).

 

Per la doctrine of qualified immunity, però, potrebbe presto suonare la campana a morto. Essa è, infatti, criticata con sempre maggior vigore tanto dalla “destra” quanto dalla “sinistra” giuridiche (usiamo queste assai insoddisfacenti etichette solo per sottolineare la trasversalità di queste disapprovazioni). Due giudici della Corte Suprema usualmente considerati agli antipodi, JusticeThomas e Justice Sotomayor, hanno espresso il desiderio di abbandonare questa teoria. Justice Thomas, in particolare, impiegando la metodologia originalista che gli è propria, ha messo in rilievo come l’attuale giurisprudenza della Corte Suprema sia in contrasto con il significato “originario” del § 1983, nonché con l’intenzione del legislatore storico (consigliato, in proposito, il fondamentale saggio di William Baude): d’altronde, decidendo che i pubblici ufficiali potessero essere responsabili solo in caso di violazione di diritti «clearly established», i giudici hanno sostituito il loro personale bilanciamento tra le opposte esigenze della tutela dei cittadini e dell’efficacia dell’azione del law enforcement a quello adottato dal Congresso, così arrogandosi un potere che non gli appartiene. Dal canto suo, Justice Sotomayor  ha affermato che «by sanctioning a “shoot first, think later” approach to policing, the Court renders the protections of the Fourth Amendment hollow».

 

Si sarebbe in grave errore se si pensasse che una questione di (sola) riparazione economica del danno subito sia cosa troppo infima per influenzare il comportamento delle forze dell’ordine. Nel sistema di common law, infatti, le cause civili (e, dunque, le condanne risarcitorie – spesso elevatissime, anche grazie al meccanismo dei punitive damages) sono strumenti efficacissimi per costringere i convenuti (in questo caso, i vari corpi di polizia) a modificare i propri comportamenti. Fintantoché – per effetto della doctrine of qualified immunity – i pubblici ufficiali saranno considerati responsabili per i loro atti e fatti illeciti in base a uno standard molto più “generoso” rispetto al comune cittadino, mancherà un incentivo importante per esercitare quella diligenza, quella prudenza e quella perizia che il loro incarico impone. Non è detto, purtroppo, che l’abbandono della doctrine of qualified immunity da parte della Corte Suprema possa evitare il ripetersi dei casi di George Floyd, Trayvon Martin o Eric Garner: è certo, però, che si tratterebbe di un passo avanti importante nella direzione di una maggiore accountability delle forze dell’ordine nel loro complesso e di una distinzione più precisa tra chi compie, coscienziosamente, il proprio dovere e chi non lo fa.

 

 

1 comment

Siamo davvero migliori di quella polizia americana? | LA VOCE DEL NORD 30/05/2020 at 19:37

[…] sempre in America, la dottrina giurisprudenziale che spesso copre i pubblici ufficiali è sempre più criticata sia da destra che da […]

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