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Critica de “Il capitale nel XXI secolo” – Parte 4°

L’incapacità della contraddizione fondamentale di spiegare l’andamento della disuguaglianza e le conclusioni erronee sul capitalismo.

 

 Nel precedente articolo (il terzo della nostra serie dedicata alla critica de “Il capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty) ci siamo soffermati a parlare delle difficoltà riscontrare dal professore francese nel tracciare in modo adeguato gli eventi storici, di spiegare l’importanza dell’innovazione e della tecnologica e di tenere in considerazione l’evoluzione delle istituzioni politiche ed economiche. In questo penultimo articolo analizziamo, invece, le inesattezze di Piketty nel definire cosa sia il “capitalismo”.

Riportiamo, per prima cosa, la definizione di “capitalismo” di Piketty:  “un’economia di mercato basata sulla proprietà privata”.

Questa definizione, semplicistica e di ampio respiro, ci permette di applicare così le “tre regole generali del capitalismo” a praticamente quasi tutti i paesi del mondo (dalla Svizzera all’Argentina o all’Egitto, dagli Stati Uniti alla Cina) anche se è giusto ricordare come economie come quella Argentina o Egiziana, ad esempio, abbiano molti punti in comune con le nazioni meno libere del mondo (Corea del Nord, Cuba, Zimbabwe e Venezuela) (Index of Economic Freedom, 2015; Acemoglu e Robinson, 2014: 1)

Seguendo il ragionamento di Piketty, potremmo applicare le “tre regole generali del capitalismo” a qualsiasi tipo di nazione che abbia un’economia basata sulla proprietà privata ed analizzare l’evoluzione storica della disuguaglianza sociale. Questa idea è chiaramente sbagliata (difficile davvero comprendere le motivazioni di Piketty nel definire il “capitalismo” usando tali vaghi termini).

Per chiarire questo punto fondamentale, prendiamo in considerazione l’esempio della Cina (usando la definizione di “capitalismo” di Piketty, la più grande economia capitalista mondiale) e la contraddizione generale del capitalismo: la disuguaglianza r> g. Stando a quanto scritto ne “Il capitale nel XXI secolo”, vista la forte crescita economica della Repubblica popolare cinese e il più basso (o costante) tasso di ritorno sul capitale, dovremmo aspettarci di ottenere come risultato una disuguaglianza economica in diminuzione (oppure costante).

Andiamo però ad osservare i dati più da vicino. Stando a quanto riportato sul database della Banca Mondiale, dal 1978, la crescita reale del PIL della Cina è stata in media del 9,82%. Questo ha permesso a centinaia di milioni di persone di accrescere rapidamente il loro status sociale nel corso di poco più di tre decenni. Tuttavia, ci accorgiamo che al tempo stesso, la disuguaglianza dei redditi e della ricchezza tempo sono aumentate considerevolmente. Sempre secondo quanto riportato dalla Banca Mondiale, il coefficiente di Gini, che serve a misurare principlamente la disuguaglianza dei redditi è andato aumentando nel corso di questi ultimi decenni (passando da 0,27 nel 1982 a 0,42 nel 2008). Come suggerito da recenti pubblicazioni accademiche (Xie e Xhou, 2014; Knight 2013), la disuguaglianza economica cinese sembra oggi attestarsi su livelli ancora più alti rispetto a quelli degli Stati Uniti, paese considerato da Piketty come una delle nazioni più ineguali tra i paesi sviluppati.

Se dovessimo spiegare il continuo aumento della disuguaglianza economica in Cina utilizzando la “contraddizione centrale del capitalismo” di Piketty, dovremmo aspettarci un tasso di ritorno sul capitale al netto delle imposte estremamente elevato in Cina, ovvero superiore, in media al 11-12%, cioè costantemente maggiore della fortissima crescita economica.

Nonostante le difficoltà di trovare dati affidabili a lungo termine sul tasso di rendimento del capitale in Cina, a causa di una mancanza di ricerca sul tema, tutti i documenti presi in considerazione in questo articolo dimostrano come, a partire dalla metà degli anni 1980 e all’inizio del 1990, la tasso di rendimento del capitale in Cina al netto delle imposte sia stato inferiore (oppure uguale) al tasso di crescita.

Secondo uno studio di Bai (2006), se si considera il tasso di rendimento reale del capitale al netto delle imposte e si esclude l’edilizia residenziale – come suggerito nel nostro secondo articolo di critica da Bonnet (2014) e Krusell (2014) –, si può stimare che esso sia oscillato tra l’8 per cento e il 12 per cento dal 1985 fino al 2005. Confrontando questi risultati con i calcoli della Banca Mondiale di crescita del PIL reale, possiamo notare come, nel corso dei due decenni analizzati, il tasso di rendimento del capitale sia rimasto spesso inferiore g, fatta eccezione per il periodo 1990-1992, anni di bassa crescita economica.

Uno studio economico dell’OCSE sulla Cina (2005) stima un tasso di ritorno sul capitale simile a quello di Bai di per gli anni 1998 e 2003. Allo stesso tempo, Yunyun Jiang Ruoen Ren (2004), professore presso l’Università di Pechino, sottolinea come il tasso di rendimento del capitale al netto delle imposte per tutto il settore privato sia rimasto sempre significativamente inferiore al tasso di crescita, con una media pari al 6% per tutto il periodo 1982-2000.

L’esempio della Cina mette in evidenza un punto molto importante: la “contraddizione centrale del capitalismo” di Piketty non è in grado di spiegare l’aumento della disuguaglianza economica in “ogni economia basata sulla proprietà privata” e quindi non può essere considerata la potente e fondamentale forza divergente che l’autore invece ritiene essa sia. Ridurre l’intero sistema capitalista ad una semplice disuguaglianza matematica ci sembra uno sforzo tanto presuntuoso quanto insoddisfacente. Prendendo in considerazione i dati di Bai (che suggeriscono un tasso di rendimento del capitale al netto delle imposte maggiore rispetto a quanto osservato da altri analisti) e la disuguaglianza r > g ci aspetteremmo un livello di disuguaglianza economica per il periodo 1985-2005 quantomeno costante e non in aumento.

 

Vedi anche Critica de “Il capitale nel XXI secolo” – Parte 3°

 

Bibliografia: 

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1 comment

Nicola Giulietti 14/12/2016 at 06:09

L’equazionea cui fai riferimento spiega l’accumolo di capitale rispetto al reddito nazionale, ma Piketti mette in chiaro da subito che tale capitale può essere in mano allo stato o a privati. È ovvio, come Piketti stesso chiarisce, che il passaggio del capitale dallo Stato ai privati produca maggiore disparità, almeno apparente: non è infatti scontato che le ricchezze dello Stato vadano a vantaggio dei cittadini.

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