Il modello di Piketty, le sue supposizioni sbagliate e le leggi fondamentali del capitalismo
Per tutti coloro che si sono fermati a pagina 26 de Il capitale nel XXI secolo, oppure per quelli (tantissimi) che hanno semplicemente letto alcune critiche (quasi sicuramente politiche, anziché economiche) del libro, il racconto descritto da Thomas Piketty potrà sembrare plausibile e la profonda critica contro il sistema capitalista, tutto sommato, giusta ed equa. In fin dei conti, Piketty ci racconta che i super-ricchi stanno diventando sempre più ricchi mentre tutti gli altri si arricchiscono meno rapidamente: la forbice tra i top 1% e 10% ed il restante 90% della popolazione è in costante aumento.
Invidiosi? Molti (come Piketty stesso) probabilmente lo saranno anche se negheranno l’evidenza.
Per spiegare la sua tesi, Piketty propone un modello a lungo termine in cui la differenza tra il tasso di ritorno sul capitale al netto delle imposte (r) ed il tasso di crescita (g) svolge un ruolo centrale nella spiegazione della disuguaglianza economica.
Per ricordare al lettore i potenziali scenari catastrofici che una disuguaglianza di reddito ed una disuguaglianza di ricchezza sempre maggiore potrebbero comportare nel prossimo secolo, Piketty ci racconta che la differenza tra “r” e “g” è, in realtà, la “contraddizione centrale del capitalismo”.
“La principale forza destabilizzante [di un’economia di mercato basata sulla proprietà privata] ha a che fare con il fatto che il tasso di ritorno sul capitale, r, può essere significativamente più alto del tasso di crescita del reddito e della produzione, g, per un lungo periodo di tempo”(Piketty, 2014: 571).
In pratica, secondo lo studioso francese, il tasso di ritorno sul capitale al netto delle imposte è stato sistematicamente superiore al tasso di crescita, per tutto il corso della storia umana. Tenendo conto delle imposte e delle perdite in conto capitale, l’unico periodo storico contraddistinto da un “basso” tasso di ritorno sul capitale è stato, per Piketty, l’arco di tempo tra il 1915 ed il 1975, epoca caratterizzata dalle due guerre mondiali, dalla grande depressione, dall’ascesa dei totalitarismi (eventi che hanno portato ad una vastissima distruzione di capitale, soprattutto nell’Europa continentale) e dall’età d’oro del capitalismo, i Gloriosi trent’anni (1945-1975).
Tuttavia, come il commentatore inglese Benjamin Kunkel, l’analista norvegese Torgeir Hoien, e molti altri sostengono, la “contraddizione centrale del capitalismo” di Piketty ( r > g) non è, assolutamente, la contraddizione logica fondamentale del capitalismo che egli sostiene. Il professore francese riprende in considerazione, seppur poi modificandolo, il pensiero economico-politico di David Ricardo e Karl Marx. Al tempo stesso, Piketty condanna il pensiero economico tradizionale contemporaneo, ma poi, per cercare di determinare una relazione tra la disuguaglianza dei reditti e della ricchezza e la crescita economica utilizza il modello di crescita neo-classico (basato sul modello post-keynesiano di Harrod-Domar, poi esteso indipendentemente sia da Robert Solow e Trevor Swan nel 1956).
Utilizzando il modello economico di Piketty, l’accumulazione di capitale creerebbe una spirale inegualitaria senza fine solo, ed esclusivamente, se la differenza tra il tasso di ritorno sul capitale al netto delle imposte ed il tasso di crescita aumenta continuamente e solo se decidiamo di inserire nel modello l’ipotesi, non molto plausibile – come Piketty stesso ammette (2014: 358) – che nel corso dei prossimi due secoli non ci saranno significative reazioni politiche che possano alterare il corso del capitalismo e della globalizzazione finanziaria. Insomma, esattamente l’opposto di quanto è effettivamente avvenuto nel corso dei primi 200 anni di capitalismo, secoli in cui abbiamo avuto modo di osservare quanto i cambiamenti economici e politici influenzino il sistema economico reale.
Il nucleo del modello di Piketty, è così incentrato su tre “regole generali del capitalismo” – una delle quali è, per l’appunto, la “contraddizione centrale del capitalismo” – che, secondo il professore francese, ci permette di esaminare la disuguaglianza economica nel lunghissimo periodo.
Importante poi sottolineare subito anche il seguente concetto: se da un lato Il capitale nel XXI secolo, ci fornisce numerosi grafici e tabelle utili per lo studio della disuguaglianza economica; dall’altro il modello teorico del libro è abbastanza confuso e le scelte linguistiche dell’autore sono, certamente, discutibili.
Nel primo capitolo del libro, lo studioso francese decide di “usare le parole ‘capitale’ e ‘ricchezza’ in modo intercambiabile, come se fossero perfettamente sinonimi” (Piketty, 2014: 47). Questa decisione porta Piketty a definire la “ricchezza nazionale” (nel libro chiamata anche “capitale nazionale”) come il valore totale di mercato di tutto ciò che può essere comprato e venduto. Per questo motivo, Piketty somma il capitale fisico (terreni, fabbricati e infrastrutture) con tutte le altre forme di ricchezza (come alloggi e altri beni) e di capitale “immateriale” (brevetti e proprietà intellettuali). Come spiega lo stesso Piketty (2014: 49), l’unico tipo di capitale che viene escluso da tale somma è quello che gli economisti neo-classici chiamano “capitale umano”, perché esso non può essere meramente scambiato sul mercato.
Dopo aver definito cosa sia il capitale, Piketty pone la sua attenzione all’evoluzione generale della quota di capitale del reddito e deriva la sua “prima legge fondamentale del capitalismo”: α = r × β.
Questa “legge” – in realtà una semplice pura tautologia (Piketty, 2014: 52) – si propone di chiarire il rapporto tra la quota di capitale del reddito nazionale (α), il tasso di rendimento del capitale (r) ed il rapporto tra capitale e reddito (β). Per il professore francese, questa “legge” svolge un ruolo importante per comprensione la disuguaglianza monetaria perché ci permette di esaminare l’importanza del capitale in un paese o anche per il mondo intero.
Al fine di mostrare come queste tre variabili siano strettamente correlate tra loro, Piketty introduce ciò che egli chiama la “seconda legge fondamentale del capitalismo”: β = s / g.
Questa “seconda regola generale” permette allo studioso francese di stringere un forte legame tra il rapporto capitale/reddito (β), il tasso di risparmio (s) ed il tasso di crescita (g). Quindi, “se – come scrive Piketty (2014: 233) – il tasso netto di risparmio rimane costante e il tasso di crescita si stabilizza intorno al 1,5 per cento nel lunghissimo periodo, lo stock globale di capitale logicamente salirà a sei o sette anni del reddito nazionale. E se la crescita scende al 1% il rapporto capitale/reddito potrebbe arrivare ad un livello pari a 10 anni”.
Secondo l’accademico francese, questa evoluzione (per lui molto probabile) avrà un enorme impatto sulla disuguaglianza in futuro, poiché una bassa crescita economica porterà automaticamente ad una maggiore accumulazione di ricchezza.
Nonostante il fascino e la semplicità di queste due “leggi”, esse sembrano avere un potere limitato e secondo Debraj Ray (2014), professore di sviluppo economico presso la New York University, in realtà non spiegano nulla riguardo la crescente disuguaglianza economica. Una posizione accademica analoga viene presa da Odran Bonnet, della Parigi Science Po, da Per Krusell, dell’Università di Stoccolma e da Tony Smith, dell’Università di Yale. Essi sostengono che nessuna delle due leggi generali di Piketty è adatta a spiegare l’aumento della disuguaglianza economica, a causa di due principali motivi:
- Se sottraiamo le plusvalenze (quali, ad esempio, i prezzi delle case) dal calcolo del capitale, possiamo vedere come, in pratica, il rapporto capitale/reddito sia sceso negli Stati Uniti fin dai primi anni ‘80 e sia rimasto più o meno costante in molti dei principali paesi europei nel corso degli ultimi 30 anni (Bonnet et al, 2014). Si noti, inoltre, che quando Piketty e Zucman (2013) hanno sottratto le plusvalenze all’interno del loro paper, hanno raggiunto risultati simili.
- Nella sua spiegazione, Piketty mantiene il tasso di risparmio netto costante, al dieci per cento. Questa ipotesi si scontra con il modello di crescita tradizionale e la teoria del risparmio ottimale poiché in questi modelli economici, alla base della teoria neo-classica (presa in considerazione proprio dallo stesso Piketty), il tasso di risparmio netto tende a zero quando la crescita economica diventa negativa o tende anche essa a zero (Krussel e Smith, 2014).
Vedi anche Critica de “Il capitale nel XXI secolo” – Parte 1° e Critica de “Il capitale nel XXI secolo” – Parte 3°
Bibliografia:
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