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Esteri

La verità sullo scoop del Washington Post

Ha provocato un discreto trambusto in questi giorni un report del “Washington Post” che, sintetizzando più di 2000 pagine di documenti militari sottratti, dimostrerebbe come negli ultimi anni i governi abbiano persistentemente mentito al pubblico americano sui progressi del conflitto in Afghanistan.

Lo scopo di tale occultamento? Nascondere i propri fallimenti nella stabilizzazione del paese. La notizia, a dispetto del suo rimbalzo mediatico favorito dalla sinistra anti-interventista, non rivela nulla più di quanto qualsiasi analista specializzato abbia riferito negli ultimi 18 anni. Il tutto, a dire il vero, era facilmente intuibile anche per lo spettatore medio che avesse avuto modo di seguire le notizie delle stragi, purtroppo, mensili, causate dalle autobombe e gli “inghimasi” nei capoluoghi afghani. Si è assistito ad un aumento costante del picco di civili a dispetto di un calo delle operazioni militari.

È improprio quindi parlare di censura di stato. Il sito dell’istituto “Foundation for Defense of Democracies”, su posizioni decisamente neocon, ha da anni una sua pagina dove aggiorna costantemente la situazione militare nel paese e da cui è sempre stato possibile avvedersi di come gli insorgenti —non sono solo i talebani, ma anche movimenti jihadisti transnazionali a loro affiliati e lo Stato Islamico— abbiano una presenza radicata nei distretti rurali — inclusi quelli che non controllano direttamente. Al contrario, incontrano ancora grandi difficoltà nel prendere possesso dei grandi centri urbani, e anche quando riescono a penetrarci vengano poi costretti a retrocedere massimo nel giro di qualche mese (è ciò che è avvenuto durante l’offensiva jihadista a Kunduz nel 2015) o anche una settimana (sempre Kunduz, ma nel 2016) sulla spinta delle truppe governative grazie anche al supporto logistico essenziale di Washington.

Il quadro degli eventi si traduce perciò in uno stallo in cui nessuna delle due fazioni riesce a prevalere sull’altra in maniera definitiva. I leader dei talebani sono ben coscienti che se gli USA ritirassero le truppe rimanenti dal paese per loro diverrebbe assai più facile concludere la restaurazione del loro Emirato: è per questo che l’hanno sempre posto come prerequisito tassativo per l’avvio dei negoziati di pace. Semplice fumo degli occhi di chi sa di avere il tempo dalla propria parte. 

La verità è che nessuno nell’entourage degli islamisti è mai stato seriamente intenzionato a stringere un accordo di smilitarizzazione con il governo afghano ed entrare pacificamente nell’agone parlamentare per far valere le proprie posizioni, come avvenuto con la PIRA in Irlanda e le FARC in Colombia. 

Le ragioni sono varie. Una è il rigetto totale della dottrina salafita per la democrazia partecipativa, testimoniata dalle minacce di bombardare i seggi durante le ultime elezioni presidenziali. Una seconda può essere il rifiuto dei servizi segreti pakistani di non avere un governo che sia completamente a loro disposizione. In un quadro geopolitico così caotico una delle poche certezze è che un abbandono americano nel contesto attuale non farebbe altro che rendere di nuovo l’Afghanistan un paradiso terrestre per i fondamentalisti barbuti di mezzo mondo proprio in una fase in cui molti orfani di al-Baghdadi ne avrebbero bisogno. Senza dimenticare tutti i progressi, lenti ma costanti, fatti per la crescita dell’alfabetizzazione maschile e femminile, nella lotta alla malnutrizione ed alla mortalità infantile, per merito anche di organizzazioni umanitarie installate sul territorio e singoli benefettari come Tetsu Nakamura, che per l’Afghanistan ha scelto di sacrificare una parte consistente della sua vita ed il cui impegno rischierebbe di andare disperso come un grumo di sabbia nel deserto.

Avete appena letto un contributo di uno dei nostri collaboratori esterni. Le idee e le posizioni riportate nell’articolo non coincidono necessariamente con quelle della redazione e dell’editore de Gli Immoderati.

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